Dopo il meraviglioso argento della squadra U20 femminile, è arrivato l’oro della maschile. Un oro non atteso ma, francamente, neanche impossibile alla vigilia: questa volta Pino Sacripanti aveva un bellissimo gruppo su cui puntare. C’era una buona dose di talento (Landi, Imbrò e Della Valle), tanto atletismo (Abass, Lombardi ma anche Chillo e Cefarelli), quel pizzico di sana incoscienza (Laganà e Ruzzier) e tanti bravissimi soldati (Tonut, Monaldi e Fallucca). Prima di partire per Tallin avevo scritto a Pino e gli avevo detto che poteva fare bene stavolta. Certo, non immaginavo l’oro ma ero fiducioso. Ed ecco che il cielo sopra Tallin è diventato azzurro e che bella la dedica a Delle Cave, lo sfortunato ragazzo morto lo scorso anno e che, sicuramente, ci sarebbe salito su quel podio. Ora tutti stanno salendo sul carro del vincitore quando poi, in realtà, questa squadra è andata avanti con le proprie forze. Tutti stanno aprendo la bocca per dire quanto siamo bravi, noi italiani, coi giovani. Quando poi il più forte è dovuto emigrare in America a scaldare la panchina di Ohio State (sperando che la musica cambi quest’anno). Quante parole al vento visto che, in Italia, parlare di settore giovanile è quasi offendere i grandi club (salvo rarissime eccezioni). Ormai, per motivi lavorativi, sono due anni che seguo tantissimo basket giovanile sia maschile che femminile. Dagli U14 agli U20 e vi posso assicurare che è una gioia per gli occhi ed il cuore vedere questa banda di ragazzi e ragazze fronteggiarsi sul campo. E’ una gioia perché vedi l’essenza della pallacanestro, la spensieratezza, la voglia di divertirsi e giocare senza guardare le statistiche (male assoluto dei campionati senior dove, spesso, ho visto giocatori incazzarsi perché non gli era stato conteggiato un rimbalzo, un assist o un recupero). I grandi club (salvo rarissime eccezioni) spendono tutto sulla squadra senior e poi mandano in campo una massa di ragazzini all’avventura nei vari campionati giovanili. Così non va per niente bene. Molti, ora, dicono: spazio ai giovani, acquistiamo i ragazzi e buttiamoli in campo. Non è così facile. Se un ragazzo promette bene, costa. Costa il cartellino (anche solo il prestito), costa farlo spostare in un’altra città, costa farlo studiare. Bisogna avere una struttura stile foresteria della vecchia Juvecaserta, dirigenti che seguano i ragazzi nel loro percorso anche scolastico, servono coach che vengano pagati (bene ed onestamente) per lavorare solo sul vivaio. Tutto ha un costo ed, allora, ecco che si preferisce prendere lo sconosciuto di turno a metà prezzo anche perché, dall’alto, si fa pochissimo per incentivare le società a spendere quei 30mila euro non all’americano, con passaporto bulgaro di turno, ma casomai al reclutamento giovanile. Anche perché, spesso e volentieri, quell’americano ha metà del talento di un nostro ragazzo. I parametri hanno affossato una generazione di atleti e portato al collasso le minors. Bisogna ripartire da qui, da questa medaglia d’oro, casomai cambiando anche le regole e non dover, per forza, buttare dentro italiani a casaccio. Chi è forte, gioca. E via pure questa farsa del premio italiani tanto abbiamo visto come si possa aggirare l’ostacolo. Questa medaglia d’oro sia un punto di partenza e che nessuno si prenda meriti se non gli atleti, lo staff e quelle poche società che, veramente, investono soldi sui settori giovanili. Non è il trionfo della FIP o della pallacanestro italiana: è il trionfo di un gruppo e di quei pochi ‘illuminati’ che hanno capito che tutto deve partire dai giovani. Anzi ripartire.